Cultura organizzativa e Management: oltre le parole

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Spesso nei convegni sulle Risorse Umane, che si vanno sempre più moltiplicando, si sentono ripetere le stesse esortazioni e gli stessi auspici: la persona al centro dell’azienda, le risorse umane sono la cosa più importante dell’organizzazione, è importantissimo ascoltare…, il leader deve prendersi cura dei suoi collaboratori…, il benessere organizzativo dipende dalla qualità dei leader…

La sensazione, a volte, è che si tratti di un refrain scontato e vuoto, declamato mentre fa capolino insinuante la consapevolezza di una realtà molto diversa, che si struttura, il più delle volte, a prescindere dalle nostre buone intenzioni.
Difficilmente emerge in questi rituali la presenza dell’ “altro/a” come molestia, come fatica, come fastidiosa interferenza della nostra soggettività, del nostro punto di vista, delle nostre ragioni. L’alterità è di per sé sinonimo di diversità e fare i conti con ciò che è diverso da noi implica sempre una dose cospicua di impegno. Gli altri ci sono da sempre e da sempre ci hanno impedito di preoccuparci solo di noi stessi, mai che ci abbiano lasciato stare; e non si limitano ad essere diversi, vogliono sempre qualcosa da noi: nel migliore dei casi attenzione, attaccarci nel peggiore….
Il valore del contributo di anni e anni di ricerche e studi, di conoscenze nuove, di teorie psicologiche e sociali, delle recenti e ultime scoperte delle neuroscienze, ad una nuova e moderna cultura manageriale è innegabile. Come è innegabile che ci sono realtà organizzative in cui si è lavorato, ci si è impegnati per creare una cultura manageriale comune, un codice specifico per poi poter valutare i risultati, gli obiettivi, le competenze, per cercare di salvare il valore dell’equità e della coerenza.
Perché è così difficile uscire dalla ritualità, perché questa difficoltà di parlare delle cose vere, inquietanti, imbarazzanti?
Forse che una volta, dato un nome alle cose, ci riteniamo più che soddisfatti e autorizzati ad abbandonarci al consolante pensiero magico che una volta creato il linguaggio esso da solo genera e realizza?
In un film degli anni Settanta, sconosciuto ai più ma divertente perché interpretato da un bambino che faceva molto bene la parte di quello che in Analisi Transazionale si definisce “il piccolo professore”, ad un certo punto afferma: le persone conoscono veramente poco di quello di cui parlano.
All’inizio del mio percorso di consulente, quando mi occupavo in modo diretto delle selezioni dei neolaureati, ricordo un giovane uomo, intelligente, concreto, con un ottimo curriculum universitario, che alla fine del colloquio mi disse: io penso che se realmente le risorse umane fossero importanti all’interno delle aziende, non ci sarebbe tutto questo bisogno di voi consulenti…

Quest’affermazione, ammetto un po’ sbrigativa, contiene una semplice verità – e lo dico andando contro i miei interessi… Le tante società di consulenza esterne all’azienda, dilaganti in questi ultimi anni, che si occupano di risorse umane, non testimoniano forse la profonda difficoltà a trasformare in azioni parole come “ascolto” o “collaborazione”?

Il lato oscuro della leadership
Anni fa mi fu chiesto di fare da coordinatrice ad un dibattito sul “lato oscuro della leadership”, una tavola rotonda a cui erano stati chiamati nomi illustri del management italiano. Mi sembrò una buona occasione per poter fare emergere le problematicità e le difficoltà, i limiti e , diciamolo pure, i difetti che ognuno di loro avrebbe potuto riconoscersi nell’esercizio della propria leadership. Prima di affrontare Il mio compito feci una ricerca su internet per raccogliere le critiche e potermi preparare delle domande provocatorie. Successe che colui che rappresentava chi aveva organizzato l’evento, spaventato dall’imbarazzo degli intervistati riportò il confronto, subito dopo le mie domande, sul terreno rassicurante dell’autocelebrazione…
Alla fine, pur essendo stata velocemente spodestata nel mio ruolo, alcuni si congratularono con me per il coraggio che avevo mostrato.
Enzo Spaltro, invitato all’ultimo convegno organizzato da Este a Milano, all’invito di Francesco Varanini a fornire la sua definizione di benessere ha risposto che il benessere consiste nella possibilità per ognuno di esprimersi a modo suo, di poter essere se stesso; quanto più questa possibilità-capacità è diffusa all’interno dell’azienda, tanto più si può parlare di benessere.
Drauzio Varella, medico brasiliano e vincitore del nobel per la medicina, ha affermato:
“Oggi spendiamo cinque volte di più per i medicinali che aiutano l’impotenza dei maschi e di silicone per le donne che non per investire sulla guarigione dell’alzheimer; di conseguenza, in futuro avremo donne vecchie con le tette grosse e uomini vecchi col pisello duro… Però nessuno di loro riuscirà a ricordare a cosa servono”.
Anche nel nostro ambito professionale continuiamo ad arrovellarci sui modelli di leadership, mentre i risultati di una ricerca realizzata da uno dei massimi consulenti aziendali, Henry Mintzberg dimostrano che il lavoro dei manager è caratterizzato da brevità, varietà, frammentazione e discontinuità. Molto residui sono gli spazi per pensare, riflettere, parlare con i propri collaboratori, condividere le informazioni e i significati.

Così nel futuro, dopo anni di formazione manageriale alla leadership, e volumi e volumi scritti sui modelli teorici di riferimento, il risultato sarà che avremo leader irrisolti e tormentati perché sanno benissimo cosa dovrebbero fare rispetto a quello che fanno in realtà?

Il leader del futuro
I contributi e gli interventi volti a delineare figura e caratteristiche del leader del futuro sono zeppi di ottimi e condivisibili auspici. Il leader del futuro, dovrebbe essere meno interessato a potere e status e contribuire alla realizzazione di particolari condizioni:

  • i collaboratori vengono incoraggiati a prendere iniziative e decisioni;
  • gli errori sono esplicitati ma non sono puniti;
  • i collaboratori hanno una visione di insieme dell’organizzazione e delle attività;
  • i collaboratori hanno accesso alle informazioni importanti; sanno cosa succede, e ciò che deve essere fatto;
  • non c’è bisogno di attivare sistemi di valutazione della performance, essi sono
    essenzialmente di gruppo e semplici indicatori , poiché i risultati sono percepiti come obiettivi personali di apprendimento e sfida.
  • nessuno dice alle persone “devi fare questo”
  • si lavora insieme per la credibilità reciproca, puntando ad accorciare la distanza tra quanto si dichiara e come si agisce;

I risultati che ne conseguono:

  • l’organizzazione è veloce, agile, adattabile e flessibile;
  • le persone si auto-organizzano e realizzano ciò per cui si stanno impegnando;
  • la collaborazione scorre e funziona molto bene;
  • le persone si sentono responsabili una verso l’altra.
  • risolvere i problemi insieme contribuisce a rinforzare autostima e collaborazione
  • le relazioni interpersonali sono positive e gratificanti;
  • la mattina ci si alza con il piacere di andare a lavorare.

Pensiamo invece ad un’organizzazione in cui:

  • la burocrazia domina le attività;
  • i leader tolgono autonomia ai collaboratori impedendo loro accesso alle informazioni che servono e controllando in prima persona tutte le attività ;
  • i leader dicono alle persone cosa devono fare, in modo dettagliato;
  • tutti sono a caccia del colpevole che ha commesso l’errore;
  • i leader non sono credibili poiché non agiscono coerentemente con quanto affermano.

La questione centrale, a mio avviso, è che qualsiasi discorso oggi su figura e comportamento di chiunque lavori all’interno dei contesti organizzativi rimanda inevitabilmente a interrogarci su un modello di azienda – e di economia, e di società.

L’impresa interagisce con economia e società: contribuisce anzi a produrle…
Da sempre l’impresa, intesa come processo di trasformazione della realtà, è stata punto di riferimento di saperi e conoscenze; le imprese hanno contribuito a creare la modernizzazione e lo sviluppo dei Paesi. Non è corretto dimenticare che il Management italiano è stato in grado di rendere operative le intuizioni di alcuni nostri imprenditori che hanno generato dei modelli organizzativi tipicamente italiani e fortemente innovativi quali le multinazionali tascabili (vedi Merloni), i distretti industriali (piastrelle, mobili, oreficeria). In realtà dagli anni settanta fino quasi al termine degli anni Novanta il sistema manifatturiero italiano è stato caratterizzato dai più alti tassi di incremento di produttività a livello mondiale ( per molti anni secondo solo agli Stati Uniti in termini di costo unitario per unità di valore prodotto, e con tassi di sviluppo della produttività spesso paragonabili alle realtà emergenti dell’estremo Oriente) fino ad essere il quinto Paese al mondo come dimensioni produttive.
Ma per la prima volta, io credo che, in particolare nel nostro Paese, il mondo intorno alle organizzazioni, alle imprese sia più avanti, sia capace di fornire direzione e stimoli interessanti su come organizzarsi, per esempio per raggiungere più rapidamente degli obiettivi: i social network stanno dando la dimostrazione concreta di come non sia la struttura gerarchica a produrre il lavoro, ma le persone che si ritrovano insieme e mettono in comune le proprie risorse, le competenze e i propri valori a produrre velocemente risultati.

Non voglio dire qui che tutte le aziende dovrebbero trasformarsi in social network o ispirarsi alla struttura organizzativa, fortemente innovativa di Google; la cultura, l’identità dell’azienda sono dimensioni ineludibili e legate alla sopravvivenza dell’azienda stessa.
Semplicemente intendo dire che si dovrebbe sviluppare un maggiore attenzione e ascolto nei confronti di queste realtà per capire meglio di cosa hanno bisogno le persone per costruire un’intelligenza operativa condivisa, capace di integrare il processo di raggiungimento dei risultati con il benessere della convivenza.

La struttura non fa il lavoro
Tutti coloro che lavorano in un’organizzazione sanno com’è strutturata, esiste una struttura formale che tutti conoscono… Ma come si struttura il lavoro? La strutturazione non si ottiene tramite la struttura gerarchica: la struttura non fa il lavoro.
Gli ultimi studi sulle organizzazioni che funzionano dimostrano che la produttività non si ottiene attraverso un organigramma, ma attraverso le persone che si incontrano e confrontano per risolvere problemi e motivate ad appianare le divisioni.
Alla fine degli anni ‘80 nelle organizzazioni produttive erano state istituite le UTE – e proprio nella Fiat – le Unità Tecnologiche Elementari, che hanno richiesto lo smembramento dalla linea d’assemblaggio fordistica e la sua ricostruzione nella forma di “cellular manufacturing”.
L’azienda, attraverso la UTE, diventava un insieme di moduli semi-autonomi, collegati fra loro in una sorta di rete. All’interno delle Unità le attività vengono gestite dai gruppi dove prevalgono relazioni non gerarchiche di cooperazione, formazione e job rotation. I vari moduli sono coordinati da meccanismi basati sulla comunicazione intranet fra le varie celle e sulla necessità di alimentare, “just in time”, il cliente a valle.
Oggi invece stiamo assistendo a modelli di regolamentazione della prestazione per la quale ogni movimento del lavoratore è obbligato e programmato nel modo e nel tempo. E’ la robotizzazione dei gesti e la velocità della produzione dei pezzi che viene enfatizzata.

Viene naturale chiedersi come la robotizzazione del comportamento delle persone nei processi produttivi possa essere coniugato con le parole cui facevamo riferimento all’inizio di questo articolo: benessere, distintività, soggettività, la persone al centro, etc.

Io continuo ad essere fermamente convinta che la maggior parte delle persone cercano di mettere qualcosa di personale nel proprio lavoro, e, ancora, che la maggior parte delle persone cercano di amare il proprio lavoro, vogliono fare la differenza ed essere riconosciute dagli altri.
Aziende che si occupano dell’habitat e dell’arredamento dei luoghi di lavoro propongono sempre più affascinanti soluzioni tutte basate sul paradigma dell’agio e del piacere di lavorare insieme. Via le vecchie scrivanie, le divisioni, le separazioni per dar luogo a spazi di confronto conviviale dentro arredamenti colorati, funzionali, circondati da piante e luoghi di ristoro. Insomma un paradigma architettonico per il quale si assottigliano le differenze tra contesto familiare e contesto di lavoro e per il quale solo assecondando i bisogni di piacere e socialità delle persone che lavorano si riescono ad innescare i processi di innovazione e creatività, motivazione e desiderio di riuscire.

E sempre sulla stessa linea, un’indagine, pubblicata sull’ultimo numero della rivista specializzata British Journal of Management e sul Journal of Experimental Psychology, (e ripresa da Federico Pace nella sezione online di Repubblica, miojob) ha analizzato il comportamento di più di duemila figure professionali impiegate in uffici e ne ha misurato l’atteggiamento nei confronti dello spazio di lavoro e la produttività. Gli autori hanno intervistato in due diversi momenti i lavoratori e li hanno sottoposti a due esperimenti volti a valutare il variare della produttività di ciascuno di loro a seconda delle caratteristiche dello spazio in cui veniva chiamato a svolgere le proprie attività.
Quanto più i luoghi sono omologati, quanto meno lasciano spazio all’inventiva e alla personalizzazione, tanto più le persone che ci lavorano sembrano estinguere slanci e voglia di fare.
In queste simulazioni i lavoratori si trovavano di fronte a situazioni in cui non avevano alcuna possibilità di intervenire sul tipo di spazio di lavoro e altre in cui venivano consultati sui cambiamenti da apportare. A ciascuno di loro poi veniva, naturalmente, posta la domanda su come si sentiva e ne veniva misurata la produttività. In particolare, gli impiegati si dovevano confrontare con quattro habitat molto diversi. Il primo era un ufficio neutro e funzionale, il secondo era decorato con piante e fotografie, nel terzo l’impiegato poteva comporre il design dello spazio mentre nel quarto, il progetto dell’impiegato veniva “ridefinito” da un manager.
I risultati conseguiti sono prevedibili. Quanto più gli impiegati potevano intervenire sugli spazi, quanto più essi mostravano un elevato grado di felicità. Senza dire degli stimoli e delle motivazioni a svolgere le proprie attività quotidiane. Molti di loro si sentivano a proprio agio come non era mai accaduto e riuscivano a identificarsi più a fondo con gli obiettivi dell’impresa. Ma non solo. Quelli che potevano lavorare in uno spazio con piante, fotografie e immagini hanno mostrato una produttività superiore del 17 per cento a quella di chi si ritrovava nell’ufficio “neutro” e “funzionale”. Ma i più bravi ed efficienti, oltre che i più sollevati e gratificati, si sono mostrati quelli che potevano dire la loro sullo spazio in cui venivano chiamati a lavorare. La loro efficienza superava del 30 per cento quella degli altri.

Il lavoro lo fanno le persone
Viene naturale chiedersi, noi che ci occupiamo di Risorse Umane, o meglio di Risorse Persona così come a me piace definirle, noi che ci occupiamo di formazione manageriale e benessere organizzativo: come riusciremo a mettere insieme dimensioni e realtà così lontane, opposte, schizofreniche?
Se condividiamo il presupposto che “il lavoro lo fanno le persone”, allora la responsabilità di far fronte alla complessità del nostro tempo, incardinata principalmente sul leader di un gruppo, mostra oggi tutta la sua inadeguatezza e segnala soprattutto un indebolimento della dimensione valoriale del fare impresa. Una leadership più diffusa, più centrata sul fare bene insieme le cose, potrebbe essere in grado di mantenere vivo quel senso di comunità grazie al quale ci si preoccupa del lavoro, dei colleghi, del nostro posto nel mondo? E ancora: come affrontare e mettere d’accordo i processi di valutazione con la necessità di una visione creativa – che non può non attingere a una soggettività individuale relativamente ma concretamente autonoma; come conciliare la precarietà delle relazioni individuo-organizzazione con l’amore per quello che si fa, con il senso di appartenenza, con la possibilità di costruire qualcosa attraverso il proprio ruolo e il proprio sapere? Come misurare la conoscenza di una persona: non solo quella acquisita nel lavoro ma durante l’arco della propria vita? Come promuovere una capacità di conoscenza per gli accadimenti futuri?
Questo nuovo paradigma: più comunità partecipe e condivisa, meno leadership individuale accentrata, può aiutare a trovare risposte nuove?

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