L’amore per il potere e il potere dell’amore: i vantaggi della relazione di mentoring

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L’amore per il potere e il potere dell’amore: i vantaggi della relazione di mentoring

Mi avete insegnato ad usare i miei poteri

solo per grandi gesta;

mi avete insegnato a sapere chi sono,

ma soprattutto a fare la cosa giusta’

(Merlino al proprio Maestro)

 

Queste due dimensioni -amore e potere- della nostra vita individuale e relazionale sono stati sin dagli albori della nostra civiltà al centro dell’attenzione dei filosofi, degli psicologi, degli antropologi  e di tutti gli studiosi della natura umana.

Per questo non voglio addentrarmi nella dimensione storica o filosofica, ma guardare a questo legame potere-amore dal punto di vista del  rapporto con il proprio lavoro e con la comunità organizzativa di cui si fa parte.

Inoltre, voglio premettere che, generalmente, non mi piace affrontare le questioni secondo la logica o/o,  perché culturalmente abituata a vedere e scoprire  come realtà e dimensioni antitetiche possano coesistere e convivere(e/e), ma in questo caso il chiasma “l’amore per il potere e il potere dell’amore” aiuta a distinguere e a riflettere.

In uno dei suoi gustosi gialli ( Gli uomini che non si voltano) Gaetano Savatteri fa dire ad un politico di professione:  ”gli uomini di potere non si innamorano, fottono”. E’ una sintesi un po’ sbrigativa, ma efficace che ci introduce immediatamente nel cuore del tema.

L’amore per il potere è in primo luogo centrato sull’”Io”. L’ Io rappresenta una struttura psichica organizzata per costruire il rapporto con la realtà che ci circonda, deputata ai processi di socializzazione e di adattamento e a quelli realizzativi.

L’Io quindi si costruisce e delinea il suo profilo attraverso il rapporto con l’alterità, con gli altri (il contesto, il gruppo, il partner, il figlio, i genitori, etc.) ed è dal rapporto con l’alterità che trae informazioni  per rappresentare la sua identità.

Da un punto di vista psicologico, potremmo dire che più la base dell’Io è solida, più c’è amore per sé e più c’è disponibilità a creare insieme con gli altri; più il proprio Io è insicuro, affamato, assetato di riconoscimenti e significati più il nostro io ha bisogno di una “relazione d’oggetto”, ha bisogno degli altri come cibo per nutrire la propria identità e il proprio senso di potere. Più si ha bisogno di ottenere conforto per essere dalla parte della “ragione”.

Il sentimento di esistere è strettamente correlato al potere di cui dispongo o che mi viene assegnato.

Paradossalmente, e forse neanche tanto, l’amore per il potere si struttura su uno scarso amore per sé. E lì dove nell’amore per il potere c’è famelicità, nel potere dell’amore c’è curiosità.

POTERE E RUOLO

Nel ruolo di manager si gestisce un certa quota di potere: potere di fare le cose, di farle accadere, di farle fare o farle insieme agli altri.

Quando un manager si comporta secondo la logica dell’amore per il potere e quando in quella contraria?

Una prima linea di demarcazione potremmo tracciarla a partire da quanto il manager sente di avere un gruppo o quanto sente di essere parte di un gruppo di lavoro.

Nel primo caso i collaboratori sono chiamati  ad adattarsi alla personalità del capo,  a mostrare appartenenza e fedeltà sulla base del sostegno, delle decisioni da lui assunte, anche se non condivise. In una cultura fondata sull’amore per il potere si è premiati per la vicinanza al potere piuttosto che per le competenze acquisite, si punta alla carriera e allo status  piuttosto che alla crescita della collettività organizzativa, i valori diffusi sono  visibilità-apparenza al posto di impegno-risultato.

L’amore per il potere esige la piena condivisione delle strategie adottate dal leader per rafforzare il proprio potere; è una strategia  quindi che tende a irrigidire/istituzionalizzare le relazioni all’interno del gruppo e a tenere distanti i componenti del gruppo, poiché ogni alleanza possibile tra i collaboratori è percepita come minacciosa.

L’amore per il potere genera comportamenti orientati al controllo e alla divisione: un gruppo è molto più difficile da controllare rispetto al singolo individuo. Nell’amore per il potere l’autonomia e/o il successo dell’altro sono percepiti come una scomodità di cui ci si deve occupare.

Nelle culture orientate al potere dell’amore gli altri sono riconosciuti per le loro competenze e la loro capacità di contribuire al risultato di tutti.

Il manager orientato al potere dell’amore si preoccupa di ciò che può dare, del modo in cui mettere a disposizione il proprio patrimonio di esperienze per arricchire le conoscenze degli altri.

E’ la competenza il valore su cui si costruisce la propria crescita professionale  e si ottiene il riconoscimento della propria capacità di “far accadere le cose”. Il manager orientato al potere dell’amore si sente parte del gruppo e lavora insieme con gli altri utilizzando il potere che proviene dal ruolo per individuare insieme con gli altri le strategie migliori per il raggiungimento dei risultati.

Proprio perché l’Io di chi è orientato al potere dell’amore è sostenuto dal riconoscimento di sé, da un adeguato livello di autostima e dalla soddisfazione per ciò che si è costruito, gli altri esistono per la loro interezza: per i loro sentimenti oltre che per le loro proposte, per il loro benessere oltre che per la capacità di produrre risultati.

Una cultura orientata al potere dell’amore sostiene libertà e autonomia, promuove l’identità professionale, è in grado di agire autentica attenzione e considerazione per le persone.

IL POTERE DELL’AMORE: LA RELAZIONE DI MENTORING

La relazione di mentoring si inserisce e risulta coerente con una filosofia di comportamento centrata sul potere dell’amore.

In questo caso l’attenzione per l’altro, la motivazione a mettere a disposizione la propria esperienza e il proprio sapere, l’interesse per lo sviluppo della persona nella sua interezza   diventano azioni concrete innescando in un vero processo di crescita sia del mentor che del mentee.

L’ amore come dice Zizek, uno dei più complessi filosofi del nostro tempo, è violento, in quanto non vuole distrazioni, è concentrato, focalizzato, esigente.

Non si può intraprendere una relazione di questo tipo se non si è animati dalla passione per ciò che si fa, e la gioia per ciò che si è costruito, per la passione e l’amore per se stessi e il bisogno di condividere, confrontarsi, cercare e ricercare nuovi significati da attribuire alle proprie esperienze e a quelle altrui.

Per comprendere una relazione di mentoring possiamo dire che essa contiene in sé molti tipi di relazione ma non coincide con nessuna di esse.

Il mentore è un maestro, ma un maestro particolare disposto a imparare egli stesso dal suo allievo: a scambiare più che a trasferire.

E’ un capo in quanto aiuta il mentee a valorizzare le sue competenze in funzione degli obiettivi che intende perseguire, dandogli fiducia, innalzando il suo livello di autostima e rafforzando i suoi punti forti. Un capo più libero dai vincoli di ruolo e di valutazione della prestazione, che più liberamente può orientare, sostenere, sfidare.

E’ un genitore che grazie alla sua maggiore esperienza di vita mette a disposizione  ciò che lui ha imparato nei passaggi di età che il mentee dovrà ancora affrontare. E nel trasmettere ciò, inevitabilmente egli stesso sarà “costretto a riflettere e ad auto-interrogarsi sul perché di certe scelte, delle conseguenza delle proprie decisioni, a interrogarsi sul significato più generale del suo percorso di vita.

E’ ancora un amico. Un amico con cui confidarsi senza paura di essere giudicati, senza la preoccupazione che ciò che viene espresso venga reinserito in una cornice di valutazione della persona di tipo prestazionale, ma dal quale sentirsi gratuitamente ascoltati per le proprie insicurezze, le proprie paure e perplessità.

Queste due ultime funzioni del mentoring, per come io lo concepisco, concorrono maggiormente a uscire dagli schemi rigidi imposti dai ruoli organizzativi. Riconoscere queste dimensioni all’interno del rapporto di mentoring significa potersi esprimere e confrontarsi su territori normalmente esclusi dalle relazioni interpersonali nei contesti organizzativi.

Vuol dire contribuire a mettere in discussione  un modello di cultura di impresa che concepisce le organizzazioni di lavoro come strutture di azione esclusivamente orientate al raggiungimento collettivo dei risultati, rimuovendo uno dei bisogni più profondi che motivano le persone ad agire e relazionarsi: il bisogno di riconoscersi in ciò che si fa e di dare un significato alle proprie azioni , al proprio progetto professionale come dimensione intrinsecamente connessa al proprio progetto di vita.

W. Reich ha affermato che il lavoro, l’amore e la conoscenza sono le tre fonti più importanti della nostra vita. Questa affermazione, in cui io mi riconosco, mette in evidenza l’ interconnessione di queste tre dimensioni e restituisce al lavoro il significato di un progetto che alimenta la nostra identità, che ci racconta della nostra capacità realizzativa e costruttiva. Il Chi Siamo non coincide con ciò che abbiamo realizzato, ma allo stesso tempo il nostro lavoro parla e racconta il Chi Siamo.

“L’aumento dell’insicurezza sociale, l’incapacità di progettare percorsi nell’illeggibile società postindustriale degli individui, l’ormai diffuso concetto di flessibilità come stile di vita imposto dai modelli, oltre che economici – lavorativi anche culturali, l’incapacità / impossibilità di stabilire

legami forti con l’’altro’, fenomeni rilevati da molti osservatori, filosofi, sociologi, psicologi come Sennet (1999), Bauman (1999 – 2001), Gallinono(2005), Beck (2008) e tanti altri. Questi elementi hanno creato un terreno fertile per un bisogno – richiesta sempre maggiore di legami

‘speciali’, che vadano oltre l’acquisto della soluzione che risolve i problemi – necessità del momento; di rapporti che soddisfino maggiormente il desiderio di dare e ricevere insieme, che portino ad un reale scambio, che servano ad esplicitare e radicare un bisogno di appartenenza sempre più diffuso, ad un aiuto alla sempre più complessa costruzione – attribuzione di senso (Del Sarto G. 2007) alla progettazione delle nostre vite che vada oltre il breve periodo e che faccia sentire parte di qualcosa di più delle ‘comunità fantoccio’ (Bauman, 2001). – (da Il Mentoring come chiave strategica contro l’esclusione sociale e professionale – Gennaio 2003 – a cura di Matteo Perchiazzi).

Nella struttura del lavoro artigianale c’era “l’apprendistato” nella bottega del “maestro” . Apprendista e maestro vivevano gomito a gomito quotidianamente: attraverso l’apprendimento del mestiere  avveniva una sorta di iniziazione ad affrontare i problemi della vita nella loro interezza. L’apprendimento del cosa fare era intrinsecamente connesso al come fare: il maestro diventava un modello di vita oltre che un modo di lavorare.

Con l’industrializzazione e la post- industrializzazione  questa forma di  relazione si è persa. E non è un caso che oggi, in un momento in cui contano soltanto i risultati, in cui la competizione è giocata oltre che sul piano tecnologico su quello della pura sopravvivenza e capacità di affrontare i tumultuosi cambiamenti che attraversano il mondo, si assiste ultimamente ad una rinnovata attenzione ai processi di comunicazione come elemento fondante l’efficacia e l’efficienza della ‘vita’ relazionale all’interno delle imprese ed alla conseguente ricerca di nuove modalità di gestione delle dinamiche interpersonali, attraverso interventi one to one: coaching, counseling, mentoring, etc.

E’ chiaro che  in una cultura connotata dall’amore per il potere un’ azione di mentoring rischia di essere percepita come azione di facciata o come pure espediente per rafforzare i processi di conseguimento dei risultati tout court.

E’ pur vero che per sua natura,  la relazione di mentoring , fondata sulla reciprocità e l’assimetria allo stesso tempo, così come dicevo all’inizio, fa fare dei passi avanti nel passaggio dalla cultura delle Risorse Umane alla cultura della Risorsa Persona, in cui in primo piano c’è la distintività di una specifica persona e di una specifica relazione.

La relazione di mentoring reintegra la relazione professionale con la dimensione storica, affettiva, ludica, dell’apprendimento; restituisce in sintesi la complessità di cui siamo fatti  anche sul lavoro.

Sono consapevole che ognuno di noi è portatore contemporaneamente sia di una cultura dell’amore per il potere che del potere dell’amore. Rifletterci può forse contribuire  a interrogarci su pesi e misure, su decisioni e scelte,  sulla potenza della relazione con gli altri  come fonte di conoscenza per ognuno di noi.

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